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Acqua

Per seguire un normale criterio cronologico avremmo dovuto parlarvi della serata del gran finale della festa popolare di Aomori, qualche km a nord di Akita, con carri che sembrerebbero di cartapesta, ma sono invece di carta dipinta e illuminati dentro, come immense lanterne che riprendono storie e miti giapponesi e cinesi (con qualche bizzarra e interessante eccezione)… e tuttavia un altro tema ci è stato imposto dal caso e dalla cronaca.

Dunque, come primissima cosa, cliccate questo link che dovrebbe portarvi a un file audio e ascoltate con attenzione la melodia che sembra sprigionarsi da uno xilofono:

Acqua

Bene. È generato da acqua, l’acqua che Silvia versava con un mestolo di legno sulle mani di figlio uno e figlio due.

Visitavamo un giardino giapponese delizioso, progettato nel 1919 per un industriale di Hirosaki, la cittadina dove avevamo pernottato per assistere al Festival di Aomori. Nella parte inferiore del giardino, intorno a un laghetto da favola, c’era una casa di legno e carta – chiusa. Tuttavia due gentili signori ci hanno fatto cenno di entrare, ci hanno sospinti dietro alla casa e ci hanno invitato a lavarci le mani in una tipica fontanella per le abluzioni prima delle preghiere. Poco più di un rubinetto, un mastello e un mestolo di legno.

L’acqua – lo sapevamo – va presa col mestolo e versata sulle mani non sopra il mastello, ma sulla ghiaia che lo circonda. Così abbiamo fatto, nella convinzione che ciò preludesse a una visita della casa, a una preghiera o simili. Ma c’era come una musica lontana, Mario si è voltato per vedere se qualcuno avesse acceso il cellulare, poi abbiamo visto gli occhi ridenti dell’uomo e ci siamo resi conto che la melodia veniva da sotto le pietre.

L’uomo ha cercato di spiegarcelo facendo anche i segni. Non abbiamo capito granché, tranne che l’acqua filtrando attraverso le pietre gocciola in un serbatoio che – ad interpretare il movimento delle mani della nostra improvvisata guida – potrebbe essere come sferico o comunque panciuto.

Una grande emozione.

Abbiamo provato a fare un video, che linkiamo qui sotto, ma che sapevamo avrebbe avuto un audio disturbato. Quindi abbia ripetuto la ripresa solo in audio, avvicinando lo iPhone alle pietre e quello sopra è il risultato.

Quando abbiamo finito ci siamo accorti che il giapponese e sua moglie erano spariti. Due angeli?

Qui il video:

Poi siamo partiti per Sendai, dove c’era un altro Festival fatto di grandi festoni di carta verticali che addobbano tutta la città. Anche qui abbiamo fatto esperienza d’acqua, ma sotto c’eravamo noi.

Nei prossimi giorni il tempo non dovrebbe granché migliorare e la visita dei templi e dei parchi non sarà facile.

Ma noi oggi abbiamo sentito la voce dell’acqua.

Tradition!

Vabbè, questa sarebbe una citazione da “Il violista sul tetto”, altro contesto e altre tradizioni, ma come direbbero i nostri due più giovani partner di questo viaggio “ci sta”: dalle esperienze giocherecce super-tecnologiche siamo passati al Giapone d’antan – in parte consapevolmente, in parte per caso.

Capisci che le cose sono (e specialmente sono state) un po’ diverse quando nel gabinetto dei maschi trovi un’icona di questo genere:


In realtà c’è il trucco: siamo al “museo dei samurai”, molto commerciale ma divertente e dove – naturalmente – “figlio grande” ha proprio dovuto fare la prova anche lui:

Nella strada verso il museo, in mezzo ad alti edifici amministrativi e commerciali, sentiamo un coro polifonico straordinario di donne. Sono allineate lungo la scalinata che affaccia su una classica “plaza” di ristoranti al piano interrato di un edificio di uffici. Qui ci dovrebbe essere un Festival balinese (!), ma intanto queste cantano benissimo, apparentemente senza maestra del coro – e sono anche amplificate molto bene.


Abbiamo tentato una ripresa, ma il microfono dello iPhone per di più all’aperto è quello che è:

Domenica, forti del nostro Japan Rail Pass di 14 giorni, ci siamo diretti al Nord della maggiore isola del Paese, dove in questi giorni si tengono alcune delle più grandi feste popolari. Prima tappa Akita, per il Kanto Matsuri: squadre di (immaginiamo) quartieri e associazioni, debitamente sponsorizzate da locali aziende e concessionarie, sfilano per la città. 

Ma prima della sfilata serale, nel pomeriggio, gruppi di ragazzi, ragazze e quelle che sembrano mamme (scuole?) danzano divertenti coreografie in piazza.


Ciascun gruppo ha una serie di timpani su carri, seguiti da flauti tipo di Pan, (percussionisti e flautisti prevalentemente ma non esclusivamente donne anche giovanissime) che accompagnano la squadra degli uomini che portano tre “Kanto”: sorta di alberi di Natale di bambù immensi cui sono appese quaranta lanterne  di carta. Ogni tanto si fermano, i flauti cessano, i timpani no e gli uomini innalzano i Kanto tenendoli in equilibrio su una mano, sulla fronte o sul sedere sporto in fuori. Di quando in quando ilKanto è reso più alto con l’aggiunta di pali, fino a diventare così alto da inarcarsi pericolosamente – fino a volte a rovinare sui fili della luce o su Kanto vicini. 

I bambini (maschi), anche di sei-otto anni, trasportano propri Kanto più piccoli e anche loro li inalberano sulla testa o sul sedere. 

Dopo un minuto o due il Kanto passa di mano. 

Qui qualche video:

Serata finita in una micro-tavernetta trovata per caso e tenuta da una anziana, gentile signora. Oltre annoi c’erano – nel senso che ci entravano solo altre due coppie. Siamo riusciti a un certo punto a far capire che volevamo anche mangiare, oltre che bere birra e sgranocchiare piselli secchi. Sono arrivati spaghetti in brodo, pesce fritto, insalata e riso!

Il tutto mente chiacchieravamo grazie a qualche avventurosa parola di inglese degli altri avventori e – sì – al po’ di giapponese che figlio due si è industriato a imparare prima di partire e che stupisce tutti quelli che incontriamo. 

Gia… ma fa parecchi errori (d’altronde quel cane che giocava a scacchi non vinceva mai).

Non c’è Giappone senza karaoke — ma c’è karaoke e karaoke

Viaggio lungo ma piuttosto comodo, con la classe Economy di Emirates francamente senza paragoni. All’aeroporto recuperata – non senza qualche prima difficoltà ​di comunicazione – la “saponetta” Wi-Fi che ci d​ovrà​ servire per questi giorni, preso ultimi treno a mezzanotte e grazie al figlio minore che ragiona siamo scesi una fermata prima del dovuto, ma più vicini a “casa”.

Casa sarebbe un appartamentino affittato in un quartiere residenziale dove siamo arrivati con una affascinante passeggiata di un quarto d’ora per stradine silenziose ed addormentare. 

Per il primo giro turistico del viaggio in mattinata siamo andati subito al sodo: “VR zone”, dove VR sta per virtual reality; in luna park al chiuso dove si può giocare con i mostri o simili, indossando una attrezzatura appunto da realtà virtuale che ti “immerge” nella situazione fantastica. Il figlio grande e il figlio piccolo sono entrati, noi abbiamo vagato per la follia delle strade di Shinjuku (ristoranti, fast food, negozi da quattro soldi, pupazzi di peluche e testoni di Godzilla sulle terrazze…) rimediando anche un paio di occhiali da lettiura che Mario aveva dimenticato a Roma.

In uno di questi luoghi improbabili – un intero negozio di macchinette-da-pesca-con-la-gru tipo luna park, solo che si pescavano pupazzi di 40 cm. – c’erano due che ​giocavano battendo su due tamburini al suono di una musica.

Sullo schermo passacavo dei pallini che indicavano il momento della battuta. Era, in sostanza, un karaoke ritmico. Se è vero che non c’è Giappone senza karaoke, occorre dire anche che c’è karaoke e karaoke.

Il video dovrebbe essere qui:

Qui i nostri nel loro primo giro sui treni di Tokyo

Si riparte!

Stasera alle 22 si riparte, questa volta per il Giappone e – specialmente – con i figli. Cercheremo di raccontare qualche cosa in questo blog e ho cercato di settarlo come in precedenza in modo che a ogni post pubblicato parta una mail per avvertire una lista di amici e parenti.

Se qualcuno preferisce evitare il nostro spam, me lo faccia sapere via mail per favore e sarà cancellato immantinente!

Abbracci!

Un’altra Africa

   
No, qui non ci sono più leoni, o gazzelle o – se è per questo – facoceri. Vivono beninteso poco lontano, visto che alla periferia di Nairobi c’è un “piccolo” parco nazionale con quasi tutti gli animali importanti e noi stessi nel lungo viaggio in bus che ci ha portati qui da Arusha lunedì abbiamo potuto ammirare zebre e gazzelle che pascolavano ai bordi della statale dove si rincorrevano i camion (“But.. this is like a safari” ha urlacchiato dal retro la ragazza canadese che era appena scesa dal Kilimagiaro).

È che per questi ultimi giorni in Africa orientale, con l’aiuto della nostra amica Francesca, stiamo cercando di vedere qualcosa di diverso dalle giraffe sotto le acacie e così stamattina siamo saliti in cima al Kenyatta Conference Centre, gloria della città amministrativa e commerciale, e dall’eliporto abbiamo visto che cosa è oggi Nairobi.

    
Nairobi è fatta a strati socialmente molto distanti. Ieri abbiamo visitato Mathare, il secondo slum della città, guidati dai giovani kenyoti del Canada Mathare Education Trust, una ONG che fornisce borse di studio a giovani del posto perché possano fare le superiori altrove e poi li re-impiega come “facilitatori” nella comunità per svolgere opera di mentoring e di formazione civica e motivazionale per i ragazzi che seguono le scuole interne allo slum.

Silvia ed io non abbiamo preso foto per ragioni di rispetto, anche e proprio perché ci sarebbe stato da scattare in continuazione scene per noi da incubo. Questa però è una foto di gruppo che hanno voluto far loro in cima a un cucuzzolo di spazzatura.

 Abbiamo avuto il privilegio di assistere per un’ora in una affollatissima seconda media, seduti ai banchi con i ragazzini, a una “lezione” sul risparmio (proiettarsi nel futuro non è banale da quelle parti) tenuta dai facilitatori, mezza in inglese mezza in swahili. Interessantissime le domande dei ragazzi, tipo “Che succede se chiedo a mia madre di tenermi i risparmi e lei li spende”? Ovvero, l’intersezione tra teoria e vita.

La scuola si chiama Bejing (immaginare da dove sono venuti i primi soldi) e fa parte integrante dello slum, dove abitano tra i 500 e gli 800.000 esseri umani. Alla fine ci hanno portato a prendere un tè nella “mensa della polizia”, una specie di bar tra una ventina di fatiscenti baracche in muratura dove vivono i poliziotti che da quelle parti dovrebbero rappresentare la certezza dell’autorità.

Un tipo molto professionale ha fatto delle foto mentre giravamo, forse ce le manderanno e allora condivideremo.

Oggi completo cambio di prospettiva. Dopo l’eliporto e una insalata in un caffè gestito da una organizzazione di cooperative di donne, siamo andati a visitare il Nairobi Garage, uno straordinario spazio di co-working tipico di questa non più tanto nuova capitale delle start up. Tra un mese ne aprono un altro più grande dall’altra parte di Nairobi, ne hanno uno a Città del Capo (Sudafrica), uno a Lagos (Nigeria) e presto ne apriranno un altro a Kigali perché, ci hanno spiegato, “pensiamo che il Ruanda sia il nuovo Kenya” in termini di innovazione imprenditoriale e tecnologica.  Mica male come cambiamento di prospettiva fuori dagli stereotipi africani, no?

Una delle organizzazioni che lavora al Nairobi Garage è RefUnite (refugees reunited), che ha costruito una piattaforma digitale per far ritrovare le famiglie disperse dalle fughe e dalle migrazioni. Come dire: i social network sono qualcosa di più di ciò che la stampa italiana (es Michele Serra) pensa che siano!

RefUnite è attiva principalmente nel Corno d’Africa (molti somali, ovviamente, ed eritrei nel loro database di oltre 400.000 profili). Ora sperano di poter fare qualcosa in medio oriente.

Domani altri incontri del genere, poi si prende l’aereo per essere a Roma venerdì.

PS: visto che si parla di scuola, da che cosa si capisce che il Tanganyka (la Tanzania continentale) è stato a lungo colonia tedesca? Ecco un avviso davanti a una libreria di Arusha che propone, crediamo, libri e quaderni per la scuola. In swahili, lingua strutturalmente meticcia :)